Paolo Taviani, “Pirandello, il neorealismo e la pandemia” con il suo “Leonora addio”

Il film ripercorre la rocambolesca avventura delle ceneri di Pirandello, attraverso il viaggio di un delegato del comune di Agrigento incaricato di portare l’urna da Roma in Sicilia, fino alla tribolata sepoltura avvenuta dopo quindici anni dalla morte

(Giulia Bianconi per CinecittàNews)

“A me e mio fratello Vittorio ha sempre incuriosito questo tragico funerale di Pirandello. Lo avremmo voluto realizzare anni fa insieme. Poi non è stato possibile, ma durante la lavorazione lui è sempre stato vicino a me”. Paolo Taviani, 90 anni, non nasconde la commozione, seduto sul divano di una camera al quinto piano dell’Hyatt, mentre ci racconta la genesi di Leonora addio, unico titolo italiano in concorso quest’anno alla Berlinale, il primo film senza il fratello Vittorio, scomparso nel 2018.

Il film ripercorre la rocambolesca avventura delle ceneri di Pirandello, attraverso il viaggio di un delegato del comune di Agrigento (Fabrizio Ferracane) incaricato di portare l’urna da Roma in Sicilia, fino alla tribolata sepoltura avvenuta dopo quindici anni dalla morte. A chiudere la pellicola, c’è l’ultimo racconto di Pirandello, Il chiodo, scritto venti giorni prima di morire, dove il giovane Bastianeddu, strappato in Sicilia dalle braccia della madre e costretto a seguire il padre al di là dell’oceano, non riesce a sanare la ferita che lo spinge a un gesto insensato. Tutto è racchiuso in un titolo, Leonora addio per l’appunto, che rievoca un’altra novella dello scrittore.

Taviani, come nasce il film?

A me e Vittorio c’è sempre sembrato che fosse stato lo stesso Pirandello a scrivere in maniera grottesca il suo funerale. Incuriositi da questa storia, volevamo inserirla già in Kaos, nostro film del 1984 basato proprio su novelle del drammaturgo, nate dai racconti di una donna di servizio. Quando abbiamo proposto di realizzare anche questa novella il produttore di allora, Giuliani G. De Negri, ci disse, seppur con affetto e ammirazione, che aveva finito i soldi.

Quando ha deciso di riprenderla in mano?

Due anni fa, quando delle ceneri di Pirandello ne avevano già parlato in moltissimi. Mi sono tuffato in questo progetto, con il fiato di Vittorio addosso, e ancora oggi ce l’ho. Mi sono documentato su momenti veri di quella storia e mi sono inventato il contorno, compreso quello che accade in treno. Mi sono tuffato nelle verità di Pirandello, nelle mie e nella fantasia.

Non è la prima volta che lavora su dei testi di Pirandello. È anche questo che l’ha spinta a realizzarlo?

Con Vittorio non facevamo mai un film con l’intenzione di fare qualcosa. Non può esserci logica in tutto. Mentre lo facevo ho provato piacere e sofferenza. Penso che siamo fatti dei film che abbiamo fatto prima. Pirandello ha ispirato me e Vittorio. Il grande scrittore diceva: le idee sono come dei sacchi, che vanno riempiti. E io ne avevo due da riempire. Per me il cinema è una bestia rara, che continua a sorprendermi ancora oggi alla mia giovane età.

Il film è dedicato a suo fratello.

Io e Vittorio siamo cresciuti insieme anche lavorando. Lui è sempre stato vicino a me durante la lavorazione del film, sarebbe stato molto contento di lavorarci. Mentre ero sul set cercavo la sua approvazione. Il chiodo lo avevamo iniziato a scrivere insieme, anche se il suo nome non c’è, perché aveva chiesto a noi e ai suoi figli di non comparire dopo la sua morte.

Cosa aveva attratto lei e suo fratello in questa novella?

Soprattutto l’affermazione surreale che il chiodo lo aveva fatto apposta a trovarsi in quel luogo e a essere utilizzato dal ragazzo per colpire la bambina. C’è dietro una non realtà che ho sentito corrispondeva al momento che stavamo vivendo. Mi sono chiesto: tutto questo male che c’è intorno a noi da chi è voluto? Appositamente, poi? Sentivo che questa storia scritta da Pirandello in passato faceva parte del presente, della pandemia. Lui l’aveva scritta venti giorni prima di morire e mi ha molto colpito anche la sua visione così triste, con un senso di fine così profondo. Negli altri suoi racconti c’era sempre stato qualcosa di grottesco, mentre questo fila diretto verso la morte. Ho anche voluto aprire e chiudere il film con un sipario. Perché la tragedia a cui assistiamo fa parte del teatro, qualcosa di chiaro, limpido e misterioso.

In Leonora addio ha voluto raccontare la storia del nostro Paese anche attraverso le immagini di film del Neorealismo.

Tutto procede per frammenti di storie e di vite in questo film e la guerra è stato uno dei periodi più terribili che abbiamo vissuto. Ho sempre pensato che la cultura italiana avesse tre momenti fondamentali: il Rinascimento, il melodramma e il cinema neorealista, che è stato un avvenimento della storia della cultura mondiale così vera. E così ho deciso di mettere alcune scene di repertorio, come quelle tratte da Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Mi sono commosso, mi è venuta in mente la mia giovinezza, e la ragione per cui faccio il cinema, come Visconti e Rossellini.

Esattamente dieci anni fa ha vinto l’Orso d’oro con Cesare deve morire. Come vive questo ritorno alla Berlinale?

Chatrian ha visto il film quando ancora non era pronto, senza musica (realizzata da Nicola Piovani, ndr). Io lo trovavo brutto perché non era ancora finito, eppure a lui è piaciuto molto. Mi ha telefonato e mi ha detto che era da concorso. All’inizio ho pensato fosse meglio fuori competizione, ma in nome del film e del lavoro fatto alla fine ho detto di sì.

Dopo l’incontro con la stampa italiana, Paolo Taviani è stato accolto con grande calore dai giornalisti internazionali alla conferenza ufficiale. A moderarla è stato il direttore della Berlinale in persona, Carlo Chatrian, che ha definito il regista “un autore che non smette mai di stupirci con le sue visioni e i suoi film”.

Leonora addio, prodotto da Stemal Entertainment, Luce Cinecittà e Rai Cinema, uscirà il 17 febbraio con 01 Distribution.

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